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Woodstock

Woodstock

Il treno, appena emerso dal ventre metropolitano, sfiora la facciata di una casa rossa, di mattoni.

Rallentiamo. Appaiono, in successione, muri verniciati di bianco sporco, lucidi e artificiali, la trama irregolare dei tetti, l’insegna Conveyancers, un caffè. È un’alba liquida, come la metropoli a quest’ora, con gli sguardi di silenzio della gente ed i suoi gesti cauti. Old Biscuit Mill: quando una parola perde il suo significato, essa acquista una nuova vita, un linguaggio diverso, più profondo. Nel beccheggio del treno abbiamo provato a cercarlo, questo significato negato, l’unica forza di un inizio del giorno di mattoni e asfalto sbrecciato, di cielo e nuvole sottili. È un tempo amniotico, quello del mattino capetoniano; esso, a tratti, regala l’impercettibile piacere di un ritorno graduale alla vita, come questa città che rilascia energia a poco a poco, un primo respiro.

Tra gli occhi e le scarpe degli altri, ci muoviamo senza fretta. Si respira, ed il rumore di ferro e rotaie, di fianco a noi, è già un suono consueto, udito milioni di volte; è il primo segnale di vita aerobica, un urlo primordiale dal quale scaturisce una traccia, un lampo, un odore. Il rumore delle auto e dei bus si addensa facendosi più opaco, come la luce diafana del mattino: non c’è più, lungo la strada principale che ricorda un villaggio gallese, il tempo che tutti conosciamo. Lenti, senza accelerazione, camminiamo in mezzo alla gente, nella città che è ruota metallica e acciaio e vetro, e, infine, viottolo torto. C’è, in alto, un grande ombrello, il cielo.

Esso comprende tutto ciò che abbiamo appena veduto, e ci spinge a cercare le parole adatte per chiamare quest’alba tardiva che è già quasi giorno ed assomiglia a ieri, o prima ancora, mentre leggiamo i nomi delle strade laterali per trovarvi un senso e annusiamo l’aria di mare. Ognuno, qui, sembra viva e si muova secondo la sintassi che gli è propria, la luce da cui nasce ogni mattino. Sentiamo, tutti noi, di appartenere alla grande madre, la Montagna che, in questo luogo, è da sempre solo una favola rassicurante e transitoria, una cattedrale nel turchino nel cielo. Il murale è graffiato, occhi e narici di un fumetto che sbuffano fuoco e fiamme e seguono la nostra cadenza lungo la curva; è disegnato sul retro di una fila interminabile di townhouse convesse, interrotte solo dalla via laterale che taglia la testa al mostro prima che possa raggiungerci. Si spengono le ultime luci del mattino. Tutto intorno sono vicoli, lievi e dolci, di cui non ci eravamo accorti. Il giorno inizia ad animarsi e, d’un tratto, rende queste strade una fantasia trasgressiva.

Siamo, a due giorni dal Natale australe, in un labirinto nel quale mille volte ci siamo persi e poi ritrovati seguendo le insegne dipinte a mano, una terra atavica ed insensibile alla città nuova, alla sua nervosa verticalizzazione, agli steli di vetro che, come i nostri occhi, anelano al cielo turchino. Woodstock si è svegliata. Una sirena infrange il mormorio della strada. Dietro una finestra, illuminati, si muovono leggeri passi di danza. 

Articolo di Corrado Passi

Fotografia di Mauro Magagna

 

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